COMMENTO & OPINIONE

Violenza e sicurezza nelle favelas di Rio de Janeiro: tra politiche fallimentari e “nuda vita”

30 Ottobre 2025



di Laura Squillace, assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Milano

La mattina di martedì 28 ottobre a Rio de Janeiro, più precisamente nel Complexo di Alemão e nel Complexo da Penha (un insieme di circa 26 favelas), si è svolta una maxi-operazione di polizia considerata tra le più letali mai realizzate. L’Operação Contenção (operazione di contenimento) aveva l’obiettivo di contrastare il crimine organizzato, in particolare quello di una delle fazioni criminali che controllano le principali favelas della città, il Comando Vermelho – CV, letteralmente “Comando Rosso”.

L’operazione ha visto un imponente dispiegamento di forze: elicotteri, veicoli blindaticompresi i carri armati quasi 100 mandati di arresto nei confronti di presunti affiliati al Comando Vermelho e 2.500 agenti delle forze dell’ordine. Tra questi, membri della Polizia Civile e della Polizia Militare, incluso il Bope, il Batalhão de Operações Policiais Especiais, ovvero il Battaglione per le operazioni speciali di polizia nato per effettuare azioni in territori considerati ad alto rischio, come le favelas controllate dai trafficanti.

Come spesso accade durante questo tipo di operazioni, i trafficanti hanno reagito con armi da fuoco le sparatorie si sono protratte per circa 12 ore e, in questa occasione, hanno perfino utilizzato droni per lanciare granate contro le forze di polizia, incendiando autobus di linea per erigere barricate. In breve, lo scenario si è trasformato in quello di una guerriglia urbana che ha provocato la morte di 121 persone, tra cui quattro agenti di polizia. Tuttavia, si teme che questo numero possa aumentare, poiché i/le residenti del Complexo de Alemão e da Penha stanno continuando a recuperare i corpi, alcuni dei quali con evidenti segni di tortura, nella Serra da Misericódia, area in cui si sono verificati diversi scontri tra forze dell’ordine e i trafficanti. Non è tardata ad arrivare la classificazione di questa operazione come una mera chacina, ovvero un massacro, così come la condanna da parte di Organizzazioni Non Governative, tra cui Human Right Watch e Amnesty International e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, che hanno richiesto un’indagine indipendente e tempestiva.

Innanzitutto, è bene specificare che la “città meravigliosa” (cidade maravilhosa) – soprannome attribuito a Rio de Janeiro per le sue bellezze naturali – è anche conosciuta a livello mondiale per i suoi elevati livelli di violenza, disuguaglianza e segregazione urbana. Quest’ultima separa nettamente l’asfalto (letteralmente, “asfalto”, cioè l’area formale più urbanizzata) dalle favelas (insediamenti poveri informali).

La maggior parte delle favelas della città, ubicate non solamente nelle aree periferiche, ma a ridosso dei quartieri più ricchi e centrali, vive sotto il controllo armato delle tre principali fazioni criminali presenti nella metropoli latinoamericana: Amigos dos Amigos, Comando Vermelho e Terceiro Comando. Questi territori soffrono un’elevata criminalizzazione, caratterizzata da un forte stigma territoriale e sociale che colpisce i/le residenti, spesso considerati/e, quasi automaticamente, bandidos, ovvero criminali.

Il principale sostentamento dei gruppi criminali deriva dalla vendita di droga, commercio illegale di armi e, soprattutto, da attività economiche che attingono anche al mercato legale, come la fornitura di servizi di base alla popolazione locale (elettricità, gas, acqua e trasporti). Non di rado, si verificano scontri armati che non si limitano ai conflitti tra gruppi rivali per contendersi il territorio, ma coinvolgono regolarmente le forze dell’ordine per cercare di bloccare l’espansione delle fazioni.

Dagli anni 90, dopo la dittatura militare, le politiche di sicurezza adottate a Rio de Janeiro si sono basate principalmente su interventi repressivi: scontro diretto con il traffico armato per cercare di arrestare i leader dei gruppi e requisire droga e armi. Sebbene alcune operazioni abbiano portato effettivamente all’arresto di capi delle fazioni e al sequestro di materiale illegale, il bilancio generale mostra che tali azioni non riescono a contenere l’espansione né delle reti criminali, né del controllo armato del territorio, mostrando così l’inefficacia di questa strategia.

Al contrario, gli effetti collaterali per la popolazione residente sono ben evidenti: interruzione delle attività quotidiane, chiusura di scuole, università e ambulatori sanitari, rischio costante di essere colpiti/e da proiettili vaganti e gravi conseguenze psicologiche. Un recente studio dell’Unicef, in collaborazione con altre istituzioni, ha evidenziato che nelle aree sotto controllo armato, i livelli di apprendimento di studenti e studentesse sono più bassi e i tassi di abbandono scolastico più alti rispetto alle zone non controllate dal traffico. È in questo contesto che i/le giovani residenti crescono, in assenza dello Stato e scarse prospettive future, fornite quasi esclusivamente dalla rete criminale o, nei casi più favorevoli, da progetti del terzo settore, la cui presenza può realmente fare la differenza.

Per comprendere come un’operazione di tale portata possa non solo essere realizzata in una società democratica, ma anche considerata un successo per il Governatore dello Stato di Rio de Janeiro che l’ha promossa, Claudio Castro (affiliato al Partido Liberal di estrema destra, lo stesso dell’ex presidente Jair Bolsonaro), è utile considerare le risposte sociali alla criminalità e le dinamiche culturali e sociali che le producono.

In primo luogo, occorre rilevare che gli abitanti di Rio de Janeiro, in particolare coloro che vivono nelle favelas, sono immersi quotidianamente in un contesto in cui la violenza è, in una certa misura, normalizzata. Con il passare del tempo, si impara a convivere con essa, incorporandola progressivamente nelle proprie routine quotidiane – come ho potuto sperimentare in prima persona nel corso degli anni di studio e ricerca trascorsi a Rio de Janeiro. Tuttavia, tale violenza non attinge tutti/e allo stesso modo: colpisce principalmente le classi popolari e razzializzate. Sono soprattutto i giovani maschi afrodiscendenti, residenti nelle favelas o nelle periferie, a costituire il bersaglio delle politiche di sicurezza urbana, in quanto percepiti come “nemici pubblici”, associati al traffico armato e sovrarappresentati tra le vittime di omicidio nel Paese. Come spiegano Loïc Wacquant e David Garland, questo tipo di categoria, in cui tale profilo può rientrare, viene spesso considerato immeritevole. Non solo, la loro vita – così come quella delle persone residenti nelle favelas –, è ridotta, per riprendere le parole del filosofo Giorgio Agamben, a una “nuda vita”, priva di diritti civili e politici ed esposta al potere sovrano. Proprio come per l’homo sacer, queste vite umane sono ritenute talmente prive di valore da rendere la loro uccisione un atto non punibile. A riguardo, come ha specificato il Governatore Castro, le uniche vittime riconosciute come tali nell’Operação Contenção sono solo i poliziotti deceduti, mentre gli altri cittadini morti (il genere maschile è qui usato intenzionalmente) vengono considerati, secondo l’accezione di Nils Christie, suitables enemies: individui privi del potere di opporsi all’etichetta attribuita socialmente, disumanizzati e percepiti come pericolosi al punto da giustificare misure straordinarie ed eccezionali.

La polizia a Rio de Janeiro è addestrata in questo contesto, nel quadro costante della “guerra alla droga”, in cui la violenza illegittima perpetrata non viene mai realmente in discussione.

La sicurezza pubblica è uno dei temi principali a Rio de Janeiro e, in vista delle prossime elezioni statali, è probabile che il Governatore abbia voluto lanciare un segnale simbolico che mostrasse fermezza e determinazione contro la criminalità.

Certamente, altre operazioni meno impattanti, caratterizzate da una quasi assenza di letalità, come l’Operação Carbono Oculto coordinata dalla Polizia Federaleche ha investigato le connessioni tra crimine e capitale illecito, smantellando una rete di riciclaggio di denaro e colpendo una delle principali fazioni criminali dello stato di San Paolo, il Primeiro Comando da Capital – PCC, primo comando della capitale, non suscitano la stessa risonanza. Similmente, gli obiettivi iniziali delle UPP (le Unità di Polizia Pacificatrice) si proponevano di invertire il modello repressivo della sicurezza urbana, promuovendo invece un approccio di polizia di prossimità.

In conclusione, ciò che servirebbe è una politica di sicurezza capace di scardinare i meccanismi economici che sostengono le fazioni criminali, investigando seriamente le loro connessioni con il mercato legale e i traffici illeciti, interrompendo il flusso di armi e munizioni verso questi gruppi e conducendo indagini indipendenti su eventuali membri corrotti all’interno delle forze dell’ordine e delle istituzioni governative. Come visto, però, la logica entro cui opera quotidianamente la polizia di Rio de Janeiro va in direzione opposta, promuovendo una letalità che segue la vecchia, ma ancora attuale logica del “bandido bom é bandido morto”, ovvero un buon bandito è un bandito morto, come già nel 2017 Ignacio Cano, Julita Lemgruber e Leonarda Musumeci avevano efficacemente messo in luce.

A Rio de Janeiro, è necessaria una riforma profonda della sicurezza pubblica e delle forze dell’ordine, che consenta loro di operare senza ricorrere a logiche belliche, le quali, come dimostrato nel corso degli anni, si sono rivelate fallimentari, sia per l’incolumità degli agenti, sia per la popolazione civile delle favelas.