COMMENTO & OPINIONE

La prevenzione della violenza sulle donne tra accertamenti sanitari obbligatori e pubblica gogna

14 Settembre 2025



di Oriana Binik, Professoressa di Criminologia nell'Università di Milano-Bicocca

Il disegno di legge 1517 "Introduzione della figura dello psicologo forense e altre risorse per il contrasto alla violenza contro le donne", presentato dal senatore Renato Ancorotti (Fratelli d’Italia) il 5 agosto e in corso di esame di discussione, si propone di “rafforzare in modo strutturale ed efficace la prevenzione e il contrasto dei reati riconducibili alla violenza contro le donne”. Si posiziona dunque in un campo di fondamentale importanza, quello della prevenzione, e lo fa annunciando modalità di intervento che sembrano rispondere ai desiderata degli esperti e degli operatori impegnati da anni sul tema: si promette un intervento “strutturale” ed “efficace”.

Gli interventi di prevenzione strutturali ed efficaci, secondo le linee guida e le evidenze scientifiche internazionali, si incardinano in un modello socio-ecologico di rafforzamento delle risorse individuali, relazionali e comunitarie, prestando costante attenzione alle disuguaglianze sociali e al substrato culturale in cui esse prendono forma.

Apparentemente in linea con questa impostazione, il disegno di legge afferma che “non tutte le devianze possono essere rilevate come patologia”, dando l’iniziale impressione di ricondurre la violenza maschile sulle donne al suo substrato socio-ecologico, prendendo così le distanze dalle spiegazioni semplicistiche e autoassolutorie focalizzate unicamente sugli aspetti psicopatologici individuali. Aggiunge inoltre di voler “tutelare la vittima intervenendo preventivamente sull'aggressore” portando l’attenzione sulla necessità di potenziare gli interventi di prevenzione rivolti in specifico agli uomini. Non si concentra però sulla prevenzione primaria (iniziative rivolte a tutti gli uomini, per esempio a scuola), ma decide di creare lo spazio per degli interventi di prevenzione secondaria e terziaria (andando cioè a intercettare gli uomini “a rischio” e/o che hanno già messo in atto comportamenti violenti).

Gli interventi trattamentali rivolti a uomini autori di violenza si stanno sempre più diffondendo negli ultimi anni, grazie al progressivo sviluppo di una rete di servizi dedicati (C.U.A.V.) che mirano a prevenire la recidiva lavorando principalmente sulla riflessività, sulla gestione emotiva e sulla responsabilizzazione del soggetto rispetto alla violenza agita.  In accordo con le indicazioni più recenti (Grevio 2022), tali centri agiscono con una prospettiva socio-ecologica e con un’équipe multidisciplinare affinché l’autore di violenza “sappia ricondurre il proprio agire violento al complesso intreccio di aspetti sociali, culturali, relazionali, emotivi e identitari”. Il percorso proposto da questi servizi è complesso e profondo, richiede perciò motivazione, impegno e spesso disponibilità a prendere parte ad attività di gruppo, di conseguenza ISTAT (2023) riporta la tendenza di alcuni C.U.A.V. a non prendere in carico uomini che non dimostrano una sufficiente motivazione (citata nel 59% dei casi come causa del mancato aggancio) e che perseverano nella negazione della violenza agita (51%). I C.U.A.V. lavorano principalmente con soggetti condannati inviati dall’Autorità giudiziaria (prevenzione terziaria), mentre gli accessi spontanei sono contenuti. Operano anche nell’ambito della prevenzione secondaria,  su invii mirati da parte di altri servizi o Istituzioni i cui operatori abbiano rilevato la necessità di un percorso specifico per prevenire l’insorgenza di comportamenti violenti, e abbiano lavorato per sviluppare una domanda di cambiamento nei soggetti inviati. Uno dei temi più discussi e critici in relazione al lavoro dei C.U.A.V. riguarda proprio la motivazione al cambiamento: ci si interroga su come stimolarla in modo adeguato ed efficace e su come lavorare sull’inevitabile strumentalità dei condannati che, in seguito all’introduzione del Codice Rosso, accedono ai percorsi al fine di ottenere la libertà condizionale.

In questa cornice, il disegno di legge propone una logica di intervento che stona fortemente con le sue prime righe introduttive e con quanto faticosamente si sta costruendo negli ultimi anni, per svariate ragioni.

In primo luogo, il target di questo disegno sono le persone “denunciate”, non “condannate”. Seguendo il filo delle attività proposte dai C.U.A.V., la mancanza di una condanna rende difficile lavorare sulla responsabilizzazione in relazione alla condotta messa in atto e sulla decostruzione dei meccanismi di diniego; l’intervento andrebbe dunque presumibilmente strutturato secondo le logiche della prevenzione secondaria rivolta a soggetti “a rischio”. Appare tuttavia superfluo soffermarsi troppo su questi dettagli operativi, poiché l’intento del DDL non sembra quello di riflettere sugli interventi psico-socio-educativi co-costruiti e validati negli anni o di ampliarne il raggio; né più in generale di cercare una continuità con le strategie consolidate.

In questa direzione, l’elemento forse più critico è dato dal fatto che il trattamento proposto dal DDL può divenire obbligatorio, pur in assenza di condanna, e che ha inoltre una matrice prettamente sanitaria. Si legge infatti che “Nei casi di fondato pericolo di reiterazione delle condotte criminose che pongono in grave ed attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa, il pubblico ministero, o gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, previa autorizzazione del pubblico ministero, possano sottoporre il soggetto denunciato ad un accertamento sanitario temporaneo ed obbligatorio”. Laddove ritenuto necessario, il soggetto potrebbe essere sottoposto a un trattamento psicoterapeutico obbligatorio presso presidi sanitari, CUAV, studi privati convenzionati o addirittura essere ricoverato in strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate.

La valutazione del soggetto, al momento condotta in équipe e con protocolli internazionali validati, verrebbe inoltre anticipata e demandata a un singolo professionista sanitario (psicologo o psichiatra forense) cui sarebbe richiesto di entrare in campo già nelle prime fasi processuali e di svolgere una perizia sul denunciato, anche al fine di valutare la necessità dell’accertamento e dell’eventuale trattamento sanitario obbligatorio. In sostanza, il perito sarebbe chiamato a valutare la pericolosità sociale prima della condanna, rievocando inevitabilmente oscure alleanze tra medicina e giustizia.

Osservato da questa prospettiva, il disegno di legge non può che richiamare il Diritto Penale d’Autore: la finalità condivisibile di agire tempestivamente si trasforma nell’identificazione di sospettati da neutralizzare non per “ciò che hanno fatto” ma per “ciò che sono”, anche ricorrendo al ricovero coatto. Ancora, vi è una smaccata patologizzazione del presunto autore di violenza, la cui condotta deriverebbe unicamente da aspetti psicologici individuali “da correggere” con urgenza, trasformando la psicoterapia in una sorta di “misura cautelare” a disposizione del pubblico ministero. Sotto un profilo operativo, torna poi la questione della motivazione al cambiamento, che interseca quella cruciale relativa all’efficacia degli interventi: in che misura obbligare una persona denunciata a eseguire un trattamento sanitario può far insorgere una domanda trasformativa da sostenere e far fiorire? I dati relativi alle persone che non sono state prese in carico dai C.U.A.V. per mancanza di motivazione suggeriscono chiaramente la direzione in cui andare a cercare la risposta a questo interrogativo. D’altronde, la letteratura scientifica sul tema è quasi assente e di conseguenza non vi è traccia di interventi di questo tipo nelle linee guida internazionali, che continuano a sottolineare l’esigenza di investire prioritariamente sulla prevenzione primaria, con un approccio ampio e olistico.

A questo quadro già critico si aggiunge l’articolo 7, che istituisce presso ogni tribunale un registro pubblico dei condannati in via definitiva per i reati del cosiddetto «codice rosso» (omicidio, maltrattamenti contro familiari e conviventi, violenza sessuale, anche di gruppo ed a discapito di minorenni, atti persecutori, lesioni personali, deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso con le relative circostanze aggravanti). Su questo punto la letteratura scientifica c’è e riguarda un’esperienza analoga statunitense, dove  i registri introdotti dalle Megan laws sono riservati ai sex offenders.  Le ricerche scientifiche, approfondite nell’articolo scritto con Roberto Cornelli e Lorenzo Natali dal titolo Quando le ‘message laws’ creano panico morale perpetuo: il caso dei registri dedicati ai sex offenders,  affermano che queste misure sono adottate in stretta connessione con le reazioni emotive suscitate dalla violenza sessuale, hanno uno scopo simbolico e sono inefficaci: di per sé, non sembrano ridurre i reati sessuali, mentre riducono  le possibilità di reinserimento dei trasgressori limitando le opportunità di alloggio, occupazione e sostegno sociale. Andando più a fondo, i registri che si vorrebbero introdurre in Italia, in linea con i loro omologhi statunitensi, esprimono un messaggio di intolleranza nei confronti di coloro che commettono reati legati alla violenza sulle donne, veicolando al contempo l’idea - incoerente con il disegno di legge - che essi siano perpetuamente recidivi e pericolosi, dunque “intrattabili”. Inoltre, consolidano la credenza diffusa che lo Stato non possa garantire la sicurezza e che sia demandato ai cittadini il compito di sorvegliare sui soggetti pericolosi in elenco, provvedendo così alla propria  protezione.   

Unendo i due principali fronti di azione del Disegno di Legge, non può che emergere il grande spaesamento condiviso di fronte alla violenza maschile sulle donne, a cui si tenta di rispondere in maniera espressiva con una prova muscolare che oscilla tra la punizione sanitaria preventiva e la pubblica gogna, lasciando poco spazio alla stratificazione e alla complessità richiesta da questo delicatissimo campo di intervento.

In conclusione, è necessario  fare pressione affinché la prevenzione della violenza maschile sulle donne sia messa in campo considerandone le matrici psico-socio-culturali, continuando a costruire interventi in rete, facendo tesoro del lavoro sul campo e della ricerca scientifica. A ciò non può che affiancarsi  una costante attenzione e opposizione verso le modalità impiegate per “mettere le donne in sicurezza”, che tendono a porre la difesa del femminile al servizio di interventi meramente simbolici, stigmatizzanti e antidemocratici.