Il lato invisibile della violenza: le sfide delle investigazioni internazionali nell’era digitale
03 Luglio 2025
di Martina Caslini, dottoranda di ricerca presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
Il 17 giugno 2025, l’Independent International Fact-Finding Mission sul Sudan ha presentato al Consiglio per i Diritti dell’Uomo un aggiornamento sulla drammatica situazione del Paese, riferendo di aver recentemente condotto 240 interviste, verificato 30 video e geolocalizzato 8 attacchi. Questo intervento si inserisce in un contesto più ampio, in cui la metodologia di raccolta dei dati e di valutazione degli elementi probatori da parte degli organi investigativi istituiti dall’ONU si è intrecciata con l’emergere di nuove tecnologie e la generazione di materiale digitale.
In questo quadro, risulta di particolare rilevanza il riconoscimento delle nuove sfide d’importanza criminologica connesse alla raccolta delle informazioni e alla valutazione delle prove in merito alla violenza sistematica che sono chiamate a indagare.
L’uso diffuso delle nuove tecnologie costituisce una caratteristica distintiva dei conflitti contemporanei. I droni vengono impiegati sia per operazioni belliche che per attività di sorveglianza; grazie a teleobiettivi ad alta risoluzione, essi sono in grado di ingrandire le immagini, consentendo di analizzare più da vicino determinate situazioni. Tali dispositivi possono anche registrare filmati digitali, successivamente consultabili o utilizzabili come prova in sede giudiziaria. Inoltre, nei contesti di conflitto attuali, le forze armate dispongono di tecnologie digitali capaci di fornire informazioni precise sul terreno. Un esempio significativo è rappresentato da Starlink, la costellazione satellitare per l’accesso a internet gestita da SpaceX, la quale ha rivestito un ruolo cruciale, seppur non privo di controversie, nella guerra russo-ucraina.
Parallelamente, i civili, dotati di telefoni cellulari, possono documentare direttamente gli eventi e condividere le prove attraverso piattaforme digitali, ma anche utilizzare applicazioni ideate specificatamente per la raccolta di elementi probatori di crimini internazionali, come eyeWitness to Atrocities, creata su iniziativa dell’International Bar Association.
Nel momento in cui i giudici saranno chiamati a valutare la ragionevolezza delle condotte degli investigatori, dei militari, dei civili che partecipano alle ostilità o, più in generale, di coloro che contribuiscono alla violenza, sulla base delle informazioni d’intelligence a loro disposizione, possono far riferimento a filmati ottenuti tramite droni o dispositivi mobili, piuttosto che affidarsi esclusivamente, ad esempio, a delle testimonianze. Nei procedimenti relativi a crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e crimine di aggressione, è infatti importante raccogliere una quantità significativa e una varietà eterogenea di prove. Tuttavia, la proliferazione di fake news e la disinformazione hanno introdotto problematiche rilevanti, in particolare per quanto concerne l’affidabilità delle fonti secondarie, la validità dell’informazione e l’integrità del processo di raccolta dei dati, complicando ulteriormente la metodologia delle investigazioni internazionali. Inoltre, sorgono interrogativi in merito all’impatto che le informazioni open source e proprietarie possono avere, unitamente a quelli relativi alle potenzialità, in caso di loro utilizzo, di strumenti di data analytics per la rapida elaborazione del materiale raccolto.
Alla luce di tali considerazioni, emerge una riflessione di ordine più strutturale, che attiene alla possibilità di documentare le violazioni che avvengono nei contesti in cui la violenza è perpetrata su larga scala. L’accesso limitato o del tutto impedito a determinati territori, spesso dovuto al mancato consenso dello Stato coinvolto o alla pericolosità intrinseca delle aree in conflitto, comporta l’impossibilità o l’estrema difficoltà, per tali organi d’indagine, di raccogliere prove dirette o di verificare in loco informazioni di rilievo. Questa situazione conduce a porsi delle domande in merito al numero di reati che sfuggono all’osservazione e alla documentazione tramite le nuove tecnologie poc’anzi menzionate.
In tal senso, si può richiamare il concetto di “numero oscuro” (o “dark figure of crime”) dell’attività criminale, ovvero quell’insieme di reati che, per vari motivi, non vengono annoverati nelle statistiche ufficiali. A tale proposito, diverse ricerche hanno dimostrato il notevole divario tra delinquenza reale e delinquenza riportata, prendendo come riferimento i comportamenti annoverati dal diritto positivo come reati (Ambroset e Pisapia, Numero Oscuro della Devianza e Questione Criminale). Questa nozione criminologica, traslata nel teatro dei territori oggetto d’indagine per gli organi investigativi istituiti dal Consiglio per i Diritti Umani, consente di interrogarsi, in relazione alle atrocità di massa, sul numero indefinito e indefinibile di gravi violazioni, potenzialmente configurabili come crimini internazionali, che sfuggono alla documentazione perché consumate in aree completamente isolate, in contesti di totale disordine informativo o secondo modalità che ne impediscono la rilevazione persino mediante l’uso delle tecnologie più avanzate. Si crea, dunque, un inevitabile gap, che non solo può limitare la capacità di accertare i fatti in maniera esaustiva, ma che incide anche sulla possibilità di assicurare giustizia alle vittime.
Più precisamente, le informazioni raccolte in contesti di atrocità di massa, oltre a costituire elementi fondativi dei reports di questi organi investigativi non giudiziari, possono assumere rilievo probatorio nei procedimenti dinnanzi alle corti nazionali e sovranazionali. Questa parzialità informativa evidenzia quindi un’area di impunità, che potrebbe influenzare la fiducia delle popolazioni colpite nei confronti delle istituzioni internazionali e dei meccanismi giudiziari di giustizia post-conflittuale.
Inoltre, tale limite compromette il pieno riconoscimento delle sofferenze vissute dalle vittime, incidendo negativamente sulla loro possibilità di accedere a forme di riparazione adeguate, sia di natura materiale che simbolica. In tale prospettiva, è fondamentale nutrire la consapevolezza del valore dell’ascolto delle verità individuali, poiché la narrazione soggettiva del trauma rappresenta, essa stessa, una forma essenziale di riconoscimento e giustizia, anche in situazioni in cui la “conoscenza” su determinati fatti sia carente o totalmente assente.
In conclusione, se da un lato l’impiego delle tecnologie digitali e degli strumenti di intelligenza artificiale rappresenta un ausilio imprescindibile per rafforzare la capacità d’indagine e per il contrasto all’impunità, dall’altro è fondamentale riconoscere che tali strumenti, per quanto sofisticati, non sono in grado di colmare completamente le lacune determinate dall’assenza di accesso fisico ai luoghi in cui tali violazioni avvengono. In quest’ottica, risulta metodologicamente importante integrare il materiale raccolto attraverso fonti tecnologiche con l’osservazione diretta sul terreno. Da ciò discende la necessità che gli Stati garantiscano l’accesso agli esperti indipendenti ai contesti di crisi di competenza del loro mandato. Al tempo stesso, nella consapevolezza della gravità e della portata delle violazioni commesse, si impone l’adozione di un approccio omnicomprensivo nell’accertamento della verità; una prospettiva che riconosca centralità alle vittime, tutte le vittime, incluse quelle dei cosiddetti “crimini invisibili”, affinché le loro voci siano ascoltate e le loro sofferenze non restino confinate nell’“oscurità”.